Competenze
e...sesso
di Pippo Tidona |
Una delle correnti di pensiero dominanti la
psicologia della prima metà del Novecento era il behaviorismo. I
behavioristi (o comportamentisti) pensavano che l'unico, vero modo per
conoscere l'uomo fosse quello di osservarne il comportamento esterno,
gli atti visibili, tutto ciò che ha un impatto nel mondo
"comune" e che, quindi, possa essere misurato e valutato. Per
quello che importa ai seguaci di questa teoria, la coscienza, i
sentimenti, le passioni, i pensieri potrebbero anche non esistere, data
la loro scarsa rilevanza scientifica, in quanto nascosti, sfuggenti.
H. Gardner (1999) riferisce una storiella che, nella
sua brevità, ci permette di andare al cuore di questo modo di vedere
(comunque ancora presente, anche se non più dominante). Due psicologi
americani comportamentisti si incontrano nella hall di un albergo dopo
una nottata passata con le rispettive piacenti mogli. Uno dice
all’altro: "Ti vedo contento e rilassato, ne devo desumere che
stanotte…. è andata proprio bene! Ma tu, invece, cosa mi dici, come
è andata a me?".
Non c’è barzelletta migliore di questa per
esprimere la filosofia delle competenze di matrice behaviorista: non
esiste veramente emozione o idea dentro di te finché tu non la
"dimostri", non la esteriorizzi e conseguentemente non riceva
un feedback da chi ti circonda.
La filosofia delle
competenze
E’ adesso di moda nella scuola l’assunto che le
conoscenze dello studente devono diventare un’esecuzione, una
prestazione oggettivizzata e misurabile, altrimenti non si può
affermare che esse esistano. Sennonché paradossalmente possiamo dire
che la vera competenza si vede ……quando non bisogna mostrare a
nessuno la propria competenza! E’ infatti notorio che in situazioni
formalmente controllate gli studenti (mi riferisco ai pochi, ai migliori
in senso assoluto, ovviamente) offrano performance impeccabili.
Diversa è la situazione quando noi li osserviamo (se riusciamo,
evidentemente) nel loro ambiente "naturale", di fronte magari
a problemi inconsueti: questi stessi alunni seguiranno una procedura più
incoerente e la loro metodologia ci sembrerà molto più
"infantile". Hanno imparato qual è la strada maestra, quando
glielo abbiamo chiesto hanno saputo indicarcela con precisione, ce
l'hanno descritta, ma adesso non la seguono.
Che cosa è successo? Il fatto è che i contenuti
sono stati sì acquisiti in maniera corretta e logicamente avveduta, ma
sono come una sovrastruttura che si è sovrapposta al sapere naturale,
ingenuo che il ragazzo già possedeva da prima e che riaffiora in
situazioni non "formali", laddove non conta più tutto ciò
che è scolastico, ciò che tu "sai" (nel senso di sai
recitare o eseguire quando qualcuno te lo chiede), ma ciò che tu
"sei".
In altri termini abbiamo preteso, da insegnanti, che
gli alunni parlassero come libri stampati, con un linguaggio
appropriato, e loro così si esprimono nelle situazioni che sanno essere
formalmente controllate. Ci accontentano. Si adeguano. Ovviamente
diverso è il discorso se gli studenti devono comunicare quello che è
realmente dentro di loro, in una situazione di libertà, laddove non
sono giudicati da nessuno: allora emerge il loro vero essere, la loro
autentica comprensione. Seguono il procedimento che l'istinto suggerisce
loro.
Gli insegnanti sanno anche che questa cesura non si
produce solo tra situazione scolastica e situazione non
scolastica, ma addirittura tra le varie discipline, nel
passaggio da un insegnamento all'altro (!): quante volte
il docente di Italiano constata che il ragazzo, il quale produce
normalmente temi sintatticamente ed ortograficamente corretti, quando
un tema gli viene assegnato, scrive, invece, ad es., una relazione
di scienza sgrammaticata, magari accurata nel contenuto, ma dalla forma
zeppa di errori? Chiaramente quello che gli era richiesto era scienza,
non italiano, pertanto l'alunno non ha pensato alla struttura
dell'elaborato, non ha scritto, del resto, per l'insegnante di italiano,
il quale non avrebbe dovuto vedere quel documento che, invece, il
docente di scienze gli ha mostrato. Si è espresso, insomma, con le sue
strutture linguistiche, quelle a lui più naturali e congeniali.
E quante volte, per citare un caso differente,
l'insegnante di storia ha posto domande, pur elementari, di scienza,
ricevendo risposte strampalate, magari dai migliori in quella
disciplina? Essi hanno risposto in maniera istintiva, dicendo quello che
immediatamente sembrava loro più corretto. E' come se i discenti si
deconcentrassero, si mostrassero infantili (ed, in effetti, infantili
sono! Si è operata una sorta di regressione cognitiva).
Siamo oggi in grado di dire, sulla base delle tante
ricerche in materia di apprendimento dei concetti (vedi in particolare
H. Gardner, The unschooled mind, 1991), che il bambino a cinque,
sei anni non si è formato solo, avendo già posto le basi della sua
personalità, dal punto di vista affettivo, ma anche da quello
intellettivo (qualcuno ha definito questa teoria freudianesimo cognitivo).
Tutte le esperienze più forti e significative che ci
sono da fare nella vita sono fatte entro i cinque, sei anni: a quell'età
abbiamo già incontrato l'amore e l'odio, la paura e la serenità,
l'invidia e la gelosia, il caldo e il freddo, abbiamo esperito le
stagioni e i cicli della natura, sappiamo che le cose nascono e muoiono.
Ed è proprio sulla base di queste esperienze fondanti che abbiamo
abbozzato delle spiegazioni riguardo al mondo ed ai suoi fenomeni,
abbiamo delle congetture sulla vita, sul nostro modo di funzionare e su
quello degli altri. Ovviamente la stragrande maggioranza di tali
spiegazioni sono incoerenti, ingenue od assolutamente fantastiche. Ma
esse sono state formate sulla scorta di eventi forti, sulla base
di concreti accadimenti con notevole valenza psicoaffettiva, i quali si
configurano, pertanto, come fatti fondanti, in grado di orientarci e
condizionarci ben al di là di questa prima cruciale fase della nostra
esistenza. Essi segnano per sempre la preminenza di questo sapere
esperienziale, primario, su ogni sapere successivo, secondario. E se si
crea un conflitto cognitivo tra questo sapere primo e le
conoscenze successive è molto probabile che la mente naturale
prevalga su quella sofisticata (al riguardo cfr. Ausubel, 1968,
in particolare la sua importante distinzione tra apprendimento meccanico
ed apprendimento significativo).
La mente non "scolarizzata"
e l’insegnamento per la comprensione
Si può dunque affermare, per usare una metafora (v.
il testo di Howard Gardner citato sopra), che le conoscenze naturali
costituiscono uno zoccolo "duro", esse sono la trama della
"mente" non "scolarizzata", le fondazioni su cui
successivamente poggeranno, sovente senza mai ristrutturarle, i saperi
sofisticati acquisiti in epoche successive.
La scuola sarà per lo studente, il più delle volte,
ciò che dicono gli altri (in molti casi altri un po’
"strani"), ma se egli deve agire sulla base di ciò che gli
suggerisce la sua esperienza "epidermica", allora non c’è
che una strada: far riemergere il sapere "esperienziale",
quello primitivo (vedi, al riguardo, l'appendice).
Non dobbiamo, perciò, immaginare l’evoluzione
cognitiva dell’alunno come un’accumulazione armonica e
progressivamente sofisticata di nozioni e concetti: bisogna, invece,
parlare di sovrapposizioni a "strati". Raramente essi vengono
integrati: spesso semplicemente coabitano, una coabitazione che prelude
ad un divorzio.
Se le cose stanno così la didattica cumulativa
(che ha anche assunto le forme della didattica recitativa) ha
fatto il suo tempo. E' necessario, prima di aggiungere ancora qualcosa
riguardo alla prima, specificare in cosa consista la seconda.
La didattica recitativa
e la didattica cumulativa.
La maniera tradizionale di impostare una lezione è
di vedere innanzi tutto quale segmento o unità didattica si vuole
coprire nel tempo dato, di studiarsi accuratamente la porzione prescelta
(se necessario) e di porgerla poi agli alunni usando un linguaggio
accessibile.
La suddetta modalità potrebbe essere denominata come
quella dell'"Io dico, tu ripeti". In altri termini, prima
tocca al docente esporre i concetti; sarà poi la volta del discente di
ripetere quello che lui ha sentito e memorizzato dopo la pausa
dello studio a casa sul libro di testo. Potremmo definire questa anche
come la didattica recitativa: in essa grande importanza ha la
verbalizzazione; la chiarezza e coerenza dell’esposizione da parte
dello studente determinano la misura della sua valutazione.
Se vogliamo renderci conto se il discente ha
veramente capito, normalmente gli chiediamo: "Che cosa vuole dire
quello che hai detto? Puoi esprimere diversamente il contenuto di
prima?". Indice di comprensione (necessario e sufficiente)
dell’argomento trattato sarà, allora, la capacità dell’allievo di
riformulare, usando altri termini, sinonimi e circonlocuzioni, quanto
prima da lui stesso asserito.
Ora questa didattica presenta due grossi limiti.
In primo luogo è una didattica tutta basata sulla
parola e noi sappiamo dagli studi sull’intelligenza e sugli stili
cognitivi che tenderà a favorire alcuni a discapito di altri (chi
preferisce la parola all’immagine, chi ha una memoria uditiva rispetto
a chi ha una memoria visiva) e per di più quanto è stato appreso
necessiterà di un richiamo continuo, di una ripetizione costante alla
pari di tutto ciò che è affidato solo all’imprinting sonoro,
altrimenti sarà ben presto consegnato al dimenticatoio, come purtroppo
avviene in tanti nostri allievi.
In secondo luogo noi abbiamo solo accertato, come
insegnanti, la capacità dell’allievo di mimare la comprensione, ma
non sappiamo quanto veramente abbia capito ciò che ha recitato,
cioè non sappiamo se, fuori del contesto scolastico e magari in
situazioni nuove, cioè impreviste, quei concetti, quelle nozioni
troveranno applicazione valida. E questo non è il massimo ma il minimo
di ogni vera comprensione: di tutto ciò che non troverà mai
applicazione ed utilizzo (corretti ovviamente) qualsivoglia nella
propria vita, difficilmente si potrà dire che sia stato pienamente
capito (dato e concesso che a scuola s’insegnano delle cose utili).
Capire in altri termini significa modificarsi: è
questo è molto più difficile di quanto fin qui non sia stato
presupposto. Per cambiare non basta recitare concetti, accumulandoli,
nella speranza che restino per sempre lì, dentro di me e che da lì
agiscano. Quello che ho esperito io prima di incontrare tali
"sofisticate" nozioni è molto più forte di quello che dicono
gli altri.
Allora far ripetere, accumulando, può non essere
sufficiente.
In effetti, dietro la maniera diciamo
"tradizionale" (nel senso almeno che è stato onorata da una
lunga tradizione) di impostare le lezioni si nasconde la concezione di
un allievo all’inizio completamente ignorante, tabula rasa, su
cui il docente può andare ad incidere le sue nozioni come vuole lui. Se
così fosse, l'unico insegnamento valido delle discipline non potrebbe
che essere trasmissivo. Ma così non è.
E’ necessario, quindi, prima di cominciare la
lezione vera e propria, un lavoro di scavo, per far emergere quelli che
sono i pre-concetti dei discenti, i fondamenti che si presteranno
come ancoraggio per i nuovi concetti.
L’insegnante deve trattenersi dal comunicare subito
le nozioni del sapere così come sono formalizzate sui libri di testo;
deve in primo luogo portare a galla, sviluppare, attraverso un uso
sapiente delle domande, attraverso inviti espliciti ed il dialogo in
classe nella fase introduttiva, le riflessioni personali degli
alunni circa i tanti rebus che ci circondano e che specificatamente
saranno oggetto della lezione che sta per iniziare.
Non è un’opera facile perché i ragazzi sono
abituati a "pendere", per così dire, dalle labbra
dell’insegnante, e pertanto sono portati a considerare qualsiasi loro
teorizzazione come una perdita di tempo: tanto sanno che poi arriva
l’insegnante a correggere tutto e a fornire la risposta esatta, che è
quella che bisogna ripetere in caso di verifica. È certamente quello
che avviene in tantissimi casi, ma così si pongono le premesse per una
comprensione carente o distorta, perché alla fine, quando l’unità
didattica è terminata ed ogni verifica portata a compimento, il vecchio
che sta sotto, per così dire, nella mente del ragazzo, riassorbirà,
trasformandolo radicalmente, il nuovo che è stato recentemente
acquisito. Ecco perché è veramente utile cercare di tematizzare (anche
se non sempre è facile far emergere queste primitive precomprensioni)
la base cognitiva da cui ognuno prende l’avvio.
A questa fase preliminare di scavo, deve
necessariamente seguire uno stadio in cui si cerca di rimarcare il
carico di dissonanza cognitiva potenzialmente presente nei nuovi
concetti.
Questo significa fare in modo che nella mente del
discente sorgano discrepanze, incertezze, dubbi, in quanto essi sono
salutari e ottime spie che si è sulla strada di una vera comprensione.
Significa anche che le nuove acquisizioni devono
diventare vere esperienze, vissute ed esaminate a vari livelli, proprio
come è successo con le prime esperienze che ci hanno strutturato da un
punto di vista cognitivo.
La didattica secante
E' quindi essenziale presentare, e far esperire, i
concetti della disciplina oggetto di studio da vari angoli di visuale,
partendo proprio dagli angoli più insoliti, dopo aver accertato
quali sono le concezioni infantili più diffuse nell'area affrontata.
Bisogna, cioè, sovvertire il modo comune di procedere: normalmente si
parte dal centro verso la periferia, dalle cose semplici verso le cose
difficili, pensando così di assemblare un tutto coeso ed organico. La
costruzione del sapere viene immaginata come edificabile per cerchi
concentrici, in modo da sistemare ogni cosa al suo posto, partendo
dall’interno ed andando verso l’esterno. Solo che il semplice ed il
complesso, l’interno e l’esterno non sono definibili come sono stati
definiti finora. Il semplice può essere un cattivo punto d’inizio,
l’interno una pietra di fondazione instabile. Quello che era facile può,
invece, diventare confondente.
La didattica della dissonanza, che potrebbe anche
essere denominata come secante (ad alto profilo di impatto, direi
provocatorio, rispetto a quanto si presuppone l'alunno già comunque
sappia), induce sicuramente più riflessione. Possiamo definire tale
didattica anche torsionale, in quanto presenta i concetti, cerca
di torcerli in maniera tale che non possano essere accomodati
facilmente con il sapere naturale dello studente. Insomma bisogna fare
in modo che essi non vengano "smussati".
La didattica secante o torsionale
impone di partire dalle cose periferiche (cioè inusuali, meno consuete)
e difficili ed andare così verso le cose "facili" che solo
allora potranno essere comprese ed assimilate correttamente.
Se si parla delle leggi di gravità non bisogna
partire dalla nozione, facile facile, che i corpi sono attratti dalla
terra e vi cadono (questo non smentirebbe l'esperienza comune), ma dal
fatto che le cose, propriamente parlando, non "cadono" da
nessuna parte (e questo produce uno shock: ma basterebbe uscire dalla
terra, ove fosse possibile per chi non è astronauta, per costatarlo!
Vedi l'appendice).
Se parliamo dell'anno, non dobbiamo partire dalla
nozione scontata delle stagioni, di "un tempo che ritorna", ma
piuttosto muovere dal fatto che esso non è stato definito sul caldo e
freddo ciclici (e come potrebbe, d'altronde, un numero preciso, 365,
collegarsi a qualcosa di aleatorio come caldo e freddo?
Vedi l'appendice). In tale situazione sarebbe necessario fare esperire,
tramite ripetute osservazioni, il corso apparente del sole nel cielo,
che molti alunni non hanno mai rilevato (al contrario del caldo e del
freddo).
Quindi, molte volte la didattica secante
richiede che il più possibile le energie degli studenti siano
convogliate, magari in una fase immediatamente successiva rispetto a
quella della lezione vera e propria, verso attività
esplorativo-applicative. D'altronde, siamo un po' tutti come San
Tommaso: se non vediamo e non tocchiamo con le nostre mani, non crediamo
e non capiamo.
La filosofia delle competenze e l'apprendimento
Da quanto si è detto sopra si intuisce come
l'eseguire, il dimostrare in situazione controllata, possa non
significare nulla. E' necessario sostituire al motto "imparare per
poter eseguire" il motto "si impara….perché si
impara": in altri termini l’insegnamento per una comprensione
sempre più approfondita dovrà sostituire quello per l’esecuzione.
La nostra è ormai una società coinvolta in
esperienze continue di apprendimento: qualcuno parla, infatti, di società
riflessiva, di learning society, di una verticalizzazione della
comprensione che non potrà avere mai fine. E bisogna imparare non perché
ciò abbia un diretto beneficio economico, sul piano produttivo, ma
perché l’uomo è nato per capirsi e per capire. Ovviamente tutto ciò
potrà, poi, avere anche conseguenze sulla vita concreta, materiale
dell’uomo stesso.
Ecco, infine, in appendice, alcuni aneddoti che sono
un po’ esempi concreti e curiosi di un apprendimento imperfetto, cioè
di una contraddizione tra i due "mondi" ("sapere
naturale" e "sapere sofisticato") di cui si parlava
dianzi. Sono casi significativi di una conoscenza che non è diventata
vero sapere personale.
Appendice
Che cosa è l’anno?
In molte occasioni mi è capitato di chiedere a
studenti di I superiore di 14 anni (i quali hanno già ripetutamente
incontrato nella loro carriera scolastica queste nozioni) perché
l’anno è formato da 365 giorni: la risposta pressoché unanime di
tutti è quasi sempre stata che 365 giorni è l’intervallo che
intercorre tra una stagione ed il suo ritorno. Alla mia osservazione che
la stagione intesa come temperatura esterna, come clima è un dato
variabile, non esatto come invece richiede il numero 365, molti mi hanno
risposto che sì, è vero, "si vede, però, che poi si fa una
media!". Di fronte alla mia considerazione che non è possibile
fare nessuna media e dopo molto dibattere, qualcuno, tra i più
preparati, ricordando nozioni libresche di geografia astronomica, e
pensando che esse fossero la soluzione gradita alle … mie orecchie, è
finalmente sbottato in un "Ah, …so io professore cosa vuole
sapere: 365 giorni è il tempo impiegato dalla terra a compiere un giro
attorno al sole!".
Grande smarrimento, ovviamente, di fronte alla mia
nuova osservazione che la determinazione precisa dell'anno era stata
fatta prima che si scoprisse che la terra gira attorno al sole.
Nessuno…. aveva, insomma, collegato l'anno al corso apparente del sole
in cielo, per il semplice motivo che questa constatazione non era stata
mai da loro compiuta. Paradossalmente possiamo dire che la loro cultura
naturale……era rimasta sostanzialmente pre-sumerica, influenzata dal
caldo e dal freddo, ma non dall’osservazione del corso degli astri in
cielo (ah, il vivere nelle città !…).
Ovviamente quanto appreso in maniera appiccicaticcia
era stato subito dimenticato da quasi tutti.
Il buco che attraversa
la terra
In più occasioni ho chiesto a ragazzi dell’anno
terminale (cioè a diciottenni che avevano a lungo studiato la fisica
newtoniana) di tentare un "gedanken experiment", un
esperimento mentale (da me tratto da una rivista scientifica). Poniamo
di riuscire a fare un buco che attraversi tutta quanta la terra da una
parte all’altra e, affacciandoci ad esso, di buttare un sasso: che
cosa succederà ? Dove andrà a fermarsi? Questo esperimento è stato
pensato (da chi lo ideato) come una cartina di tornasole, per vedere se
la fisica newtoniana sia stata veramente compresa ed assimilata dallo
studente.
Ebbene nelle situazioni da me esperite, come
sospettavo, la stragrande maggioranza (e spesso erano classi di alunni
abbastanza brillanti in Fisica) hanno fatto prevalere il loro sapere
naturale, la loro fisica "aristotelica": il grave cade perché
….è nel suo destino di cadere, e continuerà ad andare …in giù,
finché non incontrerà qualcosa di solido che lo fermerà (ad es. un
altro pianeta, un asteroide o un meteorite).
Solo pochi alunni hanno saputo fornire, e per di più
dopo una serie di tentativi a vuoto, la risposta esatta che la pietra si
arresterà attorno al centro della terra, dopo una serie di oscillazioni
di intensità decrescente (forza di gravità più principio di inerzia).
Del resto, per l'esperienza quotidiana che abbiamo
noi le cose si fermano solo quando incontrano un ostacolo!
L’amore in poesia
Personalmente ad alcuni ragazzi molto brillanti del
III anno di un liceo classico, che avevano affrontato un’unità
didattica sulla poesia amorosa (dal Dolce stil novo ai
contemporanei) sotto la guida di un insegnante capace e preparato e che
erano in grado di svolgere analisi testuali stupefacenti su certi
preziosismi formali di tanta poesia contemporanea, assegnai una volta il
compito di scrivere, dopo tanto studiare poesie altrui, una loro poesia
d’amore, così per divertimento, senza voto (si sarebbero sentiti più
liberi e spontanei). Mi aspettavo che qualcuna di queste tecniche
avrebbe trovato applicazione nelle loro composizioni.
Grande fu, perciò, la mia sorpresa (ero molto più
giovane….) nello scoprire che quegli stessi brillanti studenti avevano
scritto poesie d’amore molto elementari e di un infantilismo
esasperato: evidentemente la loro sofisticazione era solo una
"crosta". Le loro composizioni era delle semplici, sdolcinate
nenie, somiglianti molto alle filastrocche che i bambini ascoltano ed
amano ascoltare, piuttosto che a poesie d'amore di uomini e donne fatti.
Le poesie d'amore degli altri si studiano e si
commentano, si fa anche finta di apprezzarle, perché….così vuole
l'insegnante, ma è roba d'altri (spesso giudicati altri …..un po'
bizzarri). I veri sentimenti degli studenti rimangono al coperto (e
quale insegnante, del resto, comunemente chiede ai suoi alunni in che
modo hanno provato l'amore, se l'hanno mai provato?).
La vita già vissuta e sperimentata dai discenti non
si incontra mai così con ciò che si studia a scuola, forse essa è
roba che scotta, di difficile trattazione, ma in questo modo è
improbabile che la loro sensibilità si sviluppi, rimanendo quella
infantile di sempre.
Chi è Linda?
Interessante l'episodio riportato da Gardner nel suo
testo, The unschooled mind, cit., ma ripreso da Amos
Tversky, Daniel Kahneman et al. (1972).
Ad alcuni studenti (molti dei quali
"esperti" in statistica) fu sottoposta la seguente
affermazione: " Sappiamo che Linda è una ragazza di 31 anni,
"single", molto battagliera e dinamica, impegnata nel
sociale."
Gli intervistati dovevano, poi, decidere quale delle
seguenti due frasi è più probabilmente vera in termini statistici:
"Linda è un’impiegata di banca" oppure "Linda è
un’impiegata di banca ed è attiva nel movimento femminista".
Più dell'ottanta per cento risposero con grande
sicurezza che la seconda è più probabile, senza riflettere che da un
punto di vista meramente logico la seconda affermazione contiene entrambe
le clausole, perciò è meno probabile (ma, ovviamente, è più
attraente da un punto di vista contenutistico!).
Anche qui il sapere pratico, "naturale" ha
preso il sopravvento ed ha suggerito che una donna di 31 anni, non
sposata, battagliera, per forza deve essere impegnata nel movimento
femminista, prescindendo dalle reali probabilità statistiche quali
emergono dal confronto tra le due frasi!
L'aria pesante
Ripetutamente ho utilizzato in seconde classi della
scuola secondaria superiore (quindi parliamo di ragazzi di 15 anni) un
breve brano antologico (di natura vagamente fantascientifica) in cui si
parla di un uomo che decide di trasferirsi sulla luna e di vivere lì da
solo. Quest'uomo si attrezza ovviamente di tutto quanto è necessario
per sopravvivere e riesce ad essere perfettamente autosufficiente. È
solo e, nonostante tutto, la vita lì non è così noiosa come la sua
solitudine farebbe presupporre: è così preso dai suoi esperimenti
scientifici, dalle osservazioni della terra e degli altri astri dalla
luna (da lì tutto sembra diverso rispetto alla terra) che non si
accorge nemmeno del fatto che non ha compagnia. L'unica particolarità a
cui non si è ancora, però, abituato è la differente gravità rispetto
a quando abitava sulla terra. Deve stare attento, deve ancora prendere
confidenza con il fatto che la gravità sulla luna è sei volte
inferiore che sulla terra.
A questo punto del brano (che continua poi in una
direzione che qui non ci interessa), ho chiesto agli alunni cosa
significasse "forza di gravità sei volte inferiore" ed a cosa
fosse dovuta questa differenza rispetto alla terra. Ovviamente nel porre
le domande non li invitavo a richiamare, a ricordarsi dei concetti di
scienza già studiati (e del fatto che li avessero incontrati
teoricamente ero certo, in quanto facenti parte essenziale del programma
curricolare). Volevo semplicemente sapere cosa, con la "loro
scienza", mi avrebbero risposto.
Ebbene quasi tutti mi hanno sempre risposto che
gravità inferiore significava che sulla luna quest'uomo si sentiva più
leggero. Ma alla mia nuova domanda su che cosa avesse causato questo
senso di leggerezza (per stare nei termini in cui si esprimevano gli
alunni), tutti, dico tutti, hanno asserito che la leggerezza era dovuta
all'aria fine, al fatto che sulla luna c'è meno aria che sulla terra!
Ovviamente noi non viviamo mai specificatamente
l'esperienza della gravità, proprio ….perché ad essa siamo sempre
sottoposti, mentre viviamo continue e variegate esperienze di pesantezza
o leggerezza dovute alla densità dell'aria. Tutti sappiamo quanto
l'aria marina in un'afosa giornata estiva possa spezzare la gambe o
quanto, magari, l'arietta di montagna possa infondere un senso di
leggerezza e di euforia in primavera. È facile quindi che questo senso
di pesantezza e di leggerezza dovuto all'aria venga considerato come
causa della differenza di gravità!
Giuseppe Tidona

Per contattare l'autore, prof. Giuseppe Tidona,
potete inviare un e-mail a gtidon@tin.it
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